Scudo di Lepanto

Non è turco lo scudo che viene da Lepanto, conservato nella basilica di San Barnaba a Marino, ma di un marinese che partecipò a quella battaglia.

Innumerevoli sono i cimeli, trofei, spoglie, prede di guerra riportati dai tanti combattenti di parte cristiana di ritorno dalla battaglia navale di Lepanto. Come molti sanno l’aspro combattimento avvenne il 7 ottobre 1571 di fronte alle isole Echìnadi, nel golfo di Patrasso, tra una flotta di stati europei alleati comandati da don Giovanni d’Austria e la flotta ottomana comandata da Alì Pascià. Ad esempio nel santuario di San Lorenzo a Porto Venere è conservata una polena di nave, sulla quale erano imbarcati alcuni soldati di quel borgo ligure. Poi c’è lo stendardo della Lega Santa conservato nella cattedrale di Gaeta che conosciamo per averlo visto personalmente, consegnato da papa Pio V l’11 giugno 1570 a Marcantonio Colonna, signore del castello di Marino e vicecomandante generale della flotta cristiana. Poi ancora c’è una bandiera turca custodita a Spelonga di Arquata del Tronto, che alcuni anni fa fu trasportata ed esposta a Marino, durante una Sagra dell’Uva. E poi ci sono ancora drappi, armi strappate al nemico ed esposte, o riposte da più di quattro secoli in chiese e palazzi un po’ ovunque in Italia e in Europa. Ma lo scudo di Marino, no. Non è un’arma di difesa tolta al nemico.

La tradizione popolare locale, almeno in tempi recenti, ha creduto, sulla base di un equivoco, di cui alla fine spiegherò i motivi, che il cimelio fosse un trofeo, cioè uno scudo turco. Invece si tratta dello scudo di un combattente di parte cristiana e per di più marinese. Questo, tornato a casa, ha voluto donarlo come ex voto alla Madonna del Ss. Rosario per la grazia ricevuta di essere scampato alla morte in quell’epico massacro. Lo scudo con molta probabilità fu consegnato al parroco della chiesa di Santa Lucia, piuttosto che a quella di San Giovanni, prima che queste due parrocchie fossero soppresse intorno al 1640, allorquando si iniziò la costruzione della basilica collegiata di San Barnaba. Qui lo Scudo di Lepanto sarebbe stato trasferito intorno alla metà del Seicento dalla sua sede originaria.

Il cimelio era conservato in un’apposita teca, incassata in una nicchia ricavata nel muro del terzo pilastro della cappella del Ss. Rosario, fin quando nell’anno 2019 l’abate parroco mons. Pietro Massari lo fece estrarre per farlo restaurare, affidandolo alle cure delle dottoresse Elisabetta Biscarini, Antinella Amoruso e Silvia Pissagroia del Consorzio Le Arti di Roma e per le indagini multispettrali e spettroscopiche al prof. Stefano Ridolfi e alla dott.ssa Ilaria Carocci della Ars Mensurae di Roma. Il lavoro di recupero si è concluso con la consegna delle relazioni tecniche conclusive all’inizio del mese di ottobre del 2019. A chiusura della ricorrenza centenaria dell’adozione da parte dei marinesi del loro santo patrono Barnaba Apostolo (1619-2019) e del 380° anniversario della posa della prima pietra per l’edificazione della basilica (1640-2020), l’11 giugno 2020 lo scudo è stato finalmente esposto di nuovo in chiesa tra la navata principale e il transetto, dal lato dell’altare di San Bartolomeo. Alla presenza delle autorità cittadine e del prof. Roberto Libera, direttore del Museo Diocesano di Albano, l’abate parroco ha annunciato che il restaurato cimelio non sarà più riposto nella teca in marmo e vetro, che finora l’ha ospitata, ma potrà essere ammirato nell’istituendo Museo Ecclesiastico della parrocchia di San Barnaba.

Prima del restauro il reperto era molto rovinato e quasi illeggibile. Ora, dopo l’intervento, lo Scudo di Lepanto appare in tutta la sua forma e colori originali: una superficie ricurva di legno coperta da due strati di cuoio di differente spessore, esternamente dipinto a bande rosse e gialle, in grado di proteggere il corpo e la testa del soldato dalle frecce, o dai fendenti delle spade nemiche. Anche l’interno concavo presenta una fodera di cuoio dal colore grigio azzurro, dalla quale spiccano le teste di tre grossi chiodi per l’ancoraggio dell’impugnatura. Mentre i Turchi usavano generalmente scudi rotondi, il modello dello Scudo di Lepanto di Marino è rettangolare, tipico di un “pavese” italiano, secondo un modulo costruttivo risalente al medioevo, ma di misure ridotte (cm. 81 per 64), più adatto alla difesa in movimento e al combattimento corpo a corpo, come si usava ancora nelle battaglie navali del Cinquecento. Il cimelio marinese appare mancante di una porzione di legno in alto alla destra di chi lo impugnava, probabilmente asportato dai colpi avversari, mentre sulla superficie dello scudo i restauratori hanno rilevato numerosi segni di armi da taglio e fori di armi da lancio.

Nel corso del restauro sono apparse sul retro anche due scritte con inchiostro nero. La prima, apposta, presumiamo, dal priore di una confraternita, o da un canonico della collegiata, dice: «Appeso li 18 luglio 1852 da Barnaba Galassini» e riferisce di una trascorsa collocazione dello scudo a parete, come fosse un quadro, forse nella sacrestia della basilica, di cui fa fede un occhiello in metallo affisso nella parte superiore del reperto. L’altra “storica” risale alla donazione fatta dal combattente alla sua parrocchia marinese: «Pio V Sommo Pontefice, Marco An.[tonio] Colonna Duce, Scudo di Milite Marinese, donò dalla Battaglia di Lepanto contro i Turchi». Per eccesso di umiltà, o per dare un senso di ideale dono collettivo all’ex voto da parte dei superstiti nel ricordo dei caduti, il cimelio non riporta il nome del donatore e in nessun altro modo ci è stato tramandato.
Quest’ultima iscrizione toglie ormai ogni dubbio sull’effettiva origine dello scudo, che appunto non è affatto turco. L’equivoco, sul quale ci eravamo già espressi più di trenta anni fa in occasione di una ricognizione dell’epigrafe riportata nell’opera di Giuseppe Marocco e malamente riproposta dallo storico Gaetano Moroni, deve essere nato in tempi recenti, probabilmente dopo l’ultimo dopoguerra, quando lo scudo veniva ancora portato in processione la mattina della prima domenica di ottobre, nella ricorrenza della festa della Madonna del Ss. Rosario, che per i marinesi coincide con la pomeridiana Sagra dell’Uva. Infatti in tale occasione il cimelio veniva portato a spalla da giovani della società calcistica Lepanto protetto da una teca in legno, che recava nel fastigio un’iscrizione, ma più breve di quella vista da Marocco su una precedente teca andata perduta, tale da poter essere male interpretata: scutum ex turcarum, come a dire “turco”. Inoltre nel dopoguerra, a seguito dei restauri della basilica, fu realizzata una vetrina bordata con marmo nero, entro la quale fino ad oggi – come si è detto – lo scudo è stato custodito. Anche qui un’epigrafe incisa nel marmo non fa riferimento all’ex voto di un combattente marinese, pur non dichiarando esplicitamente che lo scudo sia un trofeo strappato ai turchi, così da lasciare libera interpretazione all’ignaro o superficiale visitatore. Non chiarifica un bel nulla nemmeno la nota storico critica dell’estensore della Soprintendenza, il quale nella scheda relativa allo scudo riporta le due sole iscrizioni citate da Marocco e da Moroni, limitandosi a osservare «piccole varianti» tra le due lezioni! Ma poi lo schedatore aggiunge: «Tradizionalmente indicato come scudo turco trofeo della battaglia di Lepanto, portato a Marino con altre spoglie. Diversamente sembra dire la iscrizione ora scomparsa, riportata da Marocco e Moroni».

Un’osservazione finale scaturisce d’obbligo proprio dal confronto tra le due iscrizioni del Marocco e del Moroni. Si noti nella seconda la curiosa sostituzione della parola “christiani” con “marinensis”, “strenuissime” in luogo di “fortissime” e l’errata dicitura “durtantis” per “decertantis”, “Enchinades” per “Eschinades”, “ornamentum” invece che “monumentum”, ma soprattutto l’arbitrario “Solimanum” al posto di “Selimum” (Solimano risulta più familiare al trascrittore, ma è il padre del meno noto Selim). Appare ovvio che il locale corrispondente dell’enciclopedico Gaetano Moroni abbia ricopiato l’epigrafe molto alla buona, ma con uno svarione per noi illuminante, perché soltanto un marinese poteva suggerire che lo scudo fosse di un altro marinese, non tanto per orgoglioso campanilismo, ma per consumata tradizione orale.

Ugo Onorati

 

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